Benjamin Cohen
Dal 25 maggio al 14 luglio 2023
Per la prima personale alla MAAB Gallery, Benjamin Cohen (Regno Unito, 1986), presenta una serie di lavori recenti che facendo dialogare immagini e oggetti anche lontanissimi tra di loro, evidenzia come nella ricerca del giovane artista britannico il tempo e lo spazio facciano da ponte tra passato e futuro, tra memorie personali e archetipi collettivi, tra inconscio, linguaggi ed usi contemporanei.
Il titolo della mostra allude a qualcosa che fa parte di noi fin dentro alle ossa stesse, ma che si scopre anche connesso agli estremi a noi più lontani come il sole e le stelle, se si presta attenzione a quella teoria secondo cui il calcio ed altri minerali presenti nelle ossa umane derivano dall’esplosione di una supernova avvenuta diversi milioni di anni fa. È così che gli oggetti in mostra subiscono una vera e propria riconfigurazione: partendo da forme familiari, la forma e la struttura vengono alterate, rimandando da una parte agli oggetti della vita quotidiana, ma aprendosi dall’altra a un’alterità che li rende al tempo stesso domestici ed inquietanti. Le opere di Cohen sono portali tra i tempi della storia e le narrazioni umane, con i loro desideri, paure ed ossessioni.
Non si tratta di assemblages neo-dadaisti o di gioco associativo surrealista. Gli oggetti sono pensati e presentati non come sommatoria di parti diverse, ma come un’unica configurazione, la cui nettissima rifinitura formale fa pensare a prodotti di un industrial design futuribile ed estremo. Quest’apparenza levigata, scintillante, accattivante sia nelle forme che nei colori (come in una palette pittorica cangiante, metallica e vagamente sulfurea), si compone anche di un risvolto sottilmente paradossale e sospetto, talvolta apertamente sinistro, altre volte ambiguamente sfuggente. Lo si nota ad esempio in certi dettagli delle opere: due pezzi di salmone affumicato ai piedi di un telaio per paraurti cromato, il calco di un becco d’anatra di una maschera carnevalesca, innocuo e beffardo al tempo stesso, impilato a pavimento o nascosto dentro una gabbia per uccelli o una piramide tronca riempita di bombolette usate di protossido di azoto, quel gas usato come anestetico generale in medicina, ma anche come droga euforizzante a basso costo, sorta di prototipo per un monumento del disagio sociale e dell’allucinazione.
In questo modo Benjamin Cohen passa dalla creazione alla ricreazione, cita lo sviluppo tecnologico e ricollega il passato remoto con il presente attraverso uno sguardo sul futuro. In questo modo Cohen reagisce all’omologazione rivendicando un’identità che è prima di tutto quella individuale, con le sue radici profonde come ossa collegate al suo vissuto personale, anche drammatico, ma è anche l’identità di un mondo transculturale e transnazionale in cui il tempo e la storia umana collassano l’uno sull’altra.